La comunità di San Gregorio ad Assisi è nata agli inizi degli anni ’90. E’ qui che si è sviluppato il progetto della doppia diagnosi nei primi anni 2000 che è poi stato “esportato” anche nel centro di Baiano. Alla direzione c’è Angela Marconi, psicologa, una delle prime persone ad essere state assunte al Cast come operatore per poi diventare rapidamente direttrice della struttura che oggi accoglie 12 utenti in mono diagnosi e 12 in comorbilità psichiatrica.
Come è cambiata la comunità in questi anni?
“E’ cambiata tantissimo, non solo nelle dimensioni. All’inizio si reggeva sugli operatori che erano ex utenti, come avveniva anche in altre comunità, poi c’è stata sempre di più una maggiore necessità di assumere personale più qualificato come psicologi e psicoterapeuti. E’ cambiata l’utenza. Una volta il ragazzo che arrivava in comunità era eroinomane e anche il percorso terapeutico era mirato al recupero dell’eroinomane. Dalla metà degli anni ’90 sono arrivati i poliassuntori, persone che abusavano di cocaina, droghe sintetiche, alcol e quindi bisognava adeguare anche l’intervento. Oggi la maggior parte delle richieste riguardano invece utenti con doppia diagnosi, persone con problematiche psichiatriche associate alla dipendenza, anche patologie gravi con terapie farmacologiche. E così sono cambiate anche le competenze e aumentato il livello delle competenze stesse”.
Come è composto il team che lavora qui?
“Ci sono quattro quattro psicologi-psicoterapeuti, oltre a me Debora Lai, Elena Pauli e Francesco Spagnoli, un medico psichiatra Stefano Pierini, due operatori di comunità Rossella Billotto e Massimo Concon, due operatori socio sanitari Augusto Marzocchella e Claudio Stinchi”.
Che caratteristiche ha il progetto terapeutico che si segue in questo centro?
“E’ un progetto di tipo evolutivo che dura dai 18 ai 24 mesi nel quale abbiamo integrato il progetto terapeutico-riabilitativo per i tossicodipendenti con quello psichiatrico. Non volevamo che il percorso diventasse assistenzialistico ma avesse un’impronta evolutiva che tendesse a far riappropriare la persona della propria vita”.
Quanto è importante il ruolo delle famiglie?
“Fondamentale, perché l’integrazione avviene anche a livello familiare. Dopo un primo consulto, le famiglie vengono ospitate per una settimana in comunità. Diamo la possibilità al ragazzo di fare un periodo di prova in modo che possa rendersi conto di quello che è il lavoro all’interno della comunità, di quali sono le regole e la vita qui dentro. Questo è molto importante perché consente di fare una scelta più consapevole e motivata nell’intraprendere il percorso terapeutico. Il rapporto con le famiglie non si esaurisce nella fase di accoglienza ma successivamente partecipano a dei gruppi psicoeducazionali con cadenza mensile dove si vanno ad analizzare quelle che sono le dinamiche familiari disfunzionali e si supportano le famiglie nella comprensione e nell’accettazione delle problematiche del proprio figlio. I familiari spesso hanno difficoltà ad accettare le patologie psichiatriche perché è più facile scaricare le colpe sulla droga”.
Quali sono le soddisfazioni più grandi di questo lavoro?
“Per fare questo lavoro ci vuole una grande passione ma l’elemento fondamentale per me è stato il lavoro di equipe. Qui l’approccio multidisciplinare, il confronto continuo con i colleghi sono la vera forza della comunità. E in un ambito nel quale metti in gioco una parte di te le persone fanno la differenza”.